martedì 2 luglio 2013

Specchio, specchio delle mie brame...


“La contemplazione di sé è una maledizione/ Che rende peggiore la vecchia confusione (…)  
Lo specchio dice qualche fatto veritiero,/ ma non tanti da valere un costante pensiero”. 
Me li ritrovo di fronte rileggendo l’introduzione a una collezione di Sylvia Plath, questi versi, che vengono da una poesia di Theodore Roethke. Ok, mi dico, andiamo al sodo, andiamo all’autrice. E che versi s’appalesano stavolta spalancando il libro a caso? 
Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti./ Quello che vedo lo ingoio all’istante”. 
L' avessi fatto apposta non ci sarei riuscita: la poesia si chiama 'Specchio' (e termina così, un po’ tremendamente, sì, ma Sylvia Plath, che di cose tremende ne ha passate, cose tremende ne ha scritte: “In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia/ sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo”).
A questo punto alzo gli occhi dalla pagina, e no, non mi vedo riflessa in uno specchio. Una coincidenza soltanto è già bastata per farmi pensare. Direi che ho il tema per le recensioni di oggi.

Preparati a rifletterti.


 Dentro e fuori
Stanza, Letto, Armadio, Specchio non è un accostamento per associazione ma un romanzo in cui un bambino di 5 anni vive nella claustrofobica condizione di non aver mai visto niente dell’esterno perché stato sempre e solo nella propria stanza. La Donoghue ci mette nella stessa condizione assumendo il suo occhio e il suo linguaggio, e così Specchio diventa uno degli unici “amici” nostri. Perché si sta così? È in realtà da una storia vera che viene l’idea di questa ristretta ambientazione.

Ad ascoltare il bigotto Zantman, che a un certo punto dice che “il mondo esteriore non è che uno specchio nel quale si riflette il mondo interiore”, il bimbo della Donoghue avrebbe un’interiorità piuttosto pressata. Comunque, passiamo a Zantman, che compare in Bacacay, raccolta di racconti di Witold Gombrowicz, un geniaccio polacco che credeva nella frase messa in bocca al personaggio, con il risultato che la realtà esterna, nelle sue storie, è niente affatto lineare. Vincono equivoci, rovesci delle situazioni, contraddizioni, comici fraintendimenti.


Giacomo Rizzolatti cerca invece di riportarla all’ordine, l’interiorità umana, da scienziato. Anzi, da neuroscienziato, il che significa che va a vedere che accade nel cervello in certe situazioni. E ha scoperto i Neuroni specchio. In breve: io apro un libro e mi si attivano certi neuroni, se vedo te aprire un libro mi si attivano… gli stessi neuroni. Pare che succeda anche in fatto di emozioni. Una scoperta che chiama in causa le relazioni umane. Non a caso Ramachandran ha detto che “i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”.


Tre donne
In chiusura due libri con tre donne ciascuno, e in entrambi queste tre donne si specchiano l’una nell’altra nonostante siano di tempi e luoghi distanti. Primo titolo: La donna allo specchio di Eric-Emmanuel Schmitt. Che hanno in comune una del ‘500 di Bruges che deve vedersela coi roghi, un’altra di Vienna a inizio ‘900 che s’invischia nella psicoanalisi e una terza di Hollywood dei tempi nostri ? A parte chiamarsi quasi con lo stesso nome, molto altro. E alla fine, in qualche modo, s’incontrano.

Secondo titolo: Le ore di Michael Cunningham. Le tre femmine sono: Virginia Woolf, nientemeno, Clarissa, nostra contemporanea, e Laura, del dopoguerra. Cominciamo col gioco degli specchi: Clarissa un po’ rispecchia la protagonista del romanzo che la Woolf sta scrivendo, romanzo che però si specchia anche nella vita di Laura, non perché Laura in qualche modo ne metta in pratica la storia come fa Clarissa, bensì perché Laura ce l’ha tra le mani, quel romanzo. Chiaro, no?